O miseri mortali, aprite gli occhi! Un tesoro saudita e una firma misteriosa
Salvator Mundi (1500 circa) di Leonardo da Vinci (attr.): l'opera d'arte più costosa della storia delle aste. (Foto: VCG Wilson/Corbis tramite Getty Images)
di Átila Soares da Costa Filho
Traduzione di Valéria Vicentini / Ringraziamento a Raffaella Mulazzani
Il 2011 sarà ricordato come l'anno di uno dei più grandi eventi nel mondo dell’arte: la conferma fatta dal Dott. Robert Simon, della Columbia University, di un Salvator Mundi dipinto da Leonardo da Vinci. Il Salvator era un soggetto già noto nella letteratura vinciana, ma sono sorte molte polemiche su quale delle diverse versioni venute alla luce sarebbe stata l'originale, e se davvero ce ne fosse una tra quelle emerse. A tutti gli effetti quest’opera è stata considerata uno tra i cinque possibili capolavori di Leonardo ritenuti perduti. Dopo accurate indagini fatte nel 2005 sui migliori “pretendenti” Salvator, questo in questione è stato scelto per essere sottoposto a un complesso restauro eseguito dall'esperta Dott.ssa Dianne Modestini, conclusosi solo due anni dopo. L'olio su tavola (65cm x 45cm), di gran lunga superiore agli altri per la tecnica e la qualità, passerà poi al vaglio di un organismo tecnico che decide di attribuirgli lo status di originale. Il direttore della National Gallery di Londra, Nicholas Penny, si è poi incaricato del processo di attribuzione.
Significato e origine
Il Salvator Mundi è la rappresentazione di un tema corrente nell'iconografia cristiana sin dal Medioevo (ma con radici ben più antiche). Il “Signore dei cieli e della terra” in questione appartiene al periodo più tardo della produzione artistica di Leonardo, precisamente al 1501: qui, Gesù Cristo è raffigurato frontalmente a mezza figura, con la mano destra alzata in segno di benedizione, mentre la sinistra regge una sfera di cristallo (con implicazioni cosmografiche platoniche e greche). L'insolita assenza della croce in cima al “globo” (e della sua opacità) sarebbe forse un riferimento ai concetti astronomici di Aristotele e Copernico sulle “Sfere Celesti”, strutture in cui gli astri erano distribuiti.
Il dipinto è certificato per la prima volta nel 1649, nella Collezione d’arte del re Carlo I di Inghilterra, e, nel 1900, entra a far parte della Collezione Cook (Doughty House, Richmond) come opera di Bernardino Luini (noto allievo di Leonardo).
Successivamente offerta in asta da Sotheby's, l'opera è stata acquistata, per 80 milioni di dollari, dalla R.W.Chandler, un consorzio privato americano, e, in seguito, dall'oligarca Dmitry Rybolovlev, per 127 milioni di dollari. Questo Salvator, insieme al ritratto di Ginevra de’ Benci, della National Gallery di Washington, diventa il secondo dipinto di Leonardo conservato nel Nuovo Mondo – entrambi negli Stati Uniti. Da novembre 2011 a febbraio 2012 parteciperà alla mostra “Leonardo da Vinci: Pittore alla Corte di Milano” nella National Gallery di Londra, inedita nel suo genere.
Annunciato da Christie's a New York, il dipinto viene messo all'asta il 15 novembre 2017 e acquistato per 450,3 milioni di dollari (ben oltre la stima base di 100 milioni di dollari), diventando l'opera d'arte più costosa della storia delle vendite all’asta. Il nuovo proprietario, secondo il The New York Times, è il principe saudita Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud, un investitore estraneo al mondo del collezionismo d'arte, ma un colosso nel settore delle telecomunicazioni (il Saudi Research and Marketing Group) e dell’elettricità.
Tuttavia, secondo una nota dell'Ambasciata araba a Washington, l'operazione sarebbe avvenuta per conto del Dipartimento della Cultura e del Turismo dell'esotica Abu Dhabi, di cui Farhan al-Saud è anche ministro. Ci si aspettava che la filiale del Museo del Louvre nell'emirato (aperta quattro giorni prima dell'evento storico) sarebbe stata la destinazione finale di quella che si ritiene una delle ultime opere di Leonardo ancora in mano ai privati.
Autenticità sotto tiro
Com’è prevedibile in questo tipo di situazione in cui viene annunciato un nuovo capolavoro, non sono mancate voci contrarie al riconoscimento. Una delle più grandi armi di cui si è dotata ogni critica contraria alla attribuzione è stato il cattivo stato di conservazione oltre al pessimo restauro precedente. Tendo a trattare questo tipo di argomentazione in modo cartesiano: i professionisti coinvolti nello scopo di far rivivere il Salvator sono un team di specialisti con vasta conoscenza ed esperienza. Dianne Modestini, del dipartimento di conservazione della Fondazione Kress ed ex conservatrice a pieno titolo del Metropolitan di New York, è una delle maggiori autorità mondiali del settore, avendo già lavorato per il Vaticano, nella Cappella Sistina, e ha tra la sua clientela istituzioni come la Collezione Frick e il Museo d'Arte di Toledo. O si ammette l'integrità di istituzioni ritenute di eccellenza – fino a prova contraria – oppure si dovrebbe riscrivere buona parte della Storia dell'Arte solo in base al criterio del “terrorismo attributivo preventivo”.
La versione Ganay (1503): l’enigmatico Salvator è considerata una delle opere più esoteriche della bottega di Leonardo. (Foto: Pubblico dominio)
D’altra parte, va presa in considerazione l’opinione di alcuni specialisti (in particolare la dott.ssa Carmen Bambach, del Metropolitan di New York, e Matthew Landrus, di Oxford) che attribuiscono l'opera, non a Leonardo, ma a due dei suoi più stretti discepoli: Bernardino Luini e Giovanni Boltraffio. Quanto al Luini, sappiamo che fu un artista fortemente influenzato dai lombardi Bergognone, Bramantino e Bernardino Zenale. Sebbene molto vicino allo stile del Maestro - dopo il suo secondo soggiorno a Milano, tra il 1506 e il 1513 - al Luini manca sia il peculiare uso magistrale dello sfumato sia la meticolosità dei dettagli organici che divennero le firme di Leonardo, e che saltano agli occhi in questa versione di Abu Dhabi (nei ricci dei capelli e, soprattutto, nei dettagli anatomici della mano destra). Luini, infatti, non è Leonardo. Con Boltraffio il discorso non è diverso: i suoi personaggi tendono a definirsi con visi più tondi e forme più paffute. L'uso del colore è più “liquido”, gli elementi più grafici e i tratti non raggiungono il trenta per cento della maturità e della fermezza del “lineare etereo” del genio. Inoltre, all’epoca in cui il Salvator è stato eseguito, Boltraffio era imbevuto della visceralità cromatica del Perugino e del Francia – motivo che lo allontana fortemente dalla irenicità meditativa di quest'opera. Boltraffio, infatti, non è Leonardo. In ogni caso, se la soluzione fosse ammettere che il dipinto abbia avuto, almeno in parte, la mano di Leonardo, questa “partecipazione diretta del maestro” è tale che sarebbe sufficiente per attribuirgli l’opera, senza alcun timore.
Comunque sia, la presenza di pentimenti (tracce di alterazioni o correzioni effettuate dall'artista in corso d’opera a causa di un suo ripensamento) è, sicuramente, un forte differenziale, determinante per giungere a un giudizio sulla legittimità e originalità della versione di Abu Dhabi. Ma, poiché non tutto è rose e fiori, a proposito di un particolare, il palmo della mano sinistra che sostiene la sfera, il professor emerito di Oxford, Martin Kemp, sostiene che il pentimento che lì appare visibile non è che un falso allarme: si tratterebbe, in realtà, di un leggero effetto visivo su parte del “calcagno” della mano (quando non è a diretto contatto con la superficie della sfera). Il problema è che un tale effetto si estende oltre i limiti della sfera e, di conseguenza, la mano dovrebbe smettere di "duplicarsi", cosa che non accade. Quindi, si tratta proprio di un pentimento: questa è l'unica spiegazione possibile di ciò che lì si vede. Una prova consistente per corroborare tale affermazione si basa su un'altra versione leonardesca del Salvator Mundi che era stata considerata quella definitiva fino al ritrovamento di quella di Abu Dhabi. Parlo della copia conservata al Museo Diocesano di Napoli. Nel 2007 ho avuto l’opportunità di analizzare direttamente il dipinto - spesso attribuito a Marco d'Oggiono -, e ho potuto confermare l'assenza del pentimento, soprattutto al di sopra del pollice sinistro che poggia sulla sfera: per cui, se fosse uno strato di pelle (come vuole Kemp) sul dipinto di Abu Dhabi, dovrebbe esserci anche in questo, di Napoli. Una volta risolta la confusione, va aggiunto che nella tunica di Gesù è stata rilevata la pigmentazione dei lapislazzuli, una roccia blu intenso, uno dei materiali preferiti di Leonardo.
Bisogna anche tener conto che, contrariamente a quanto qualche detrattore potrebbe sostenere in termini della presunta assenza del dinamismo vinciano in questo dipinto (come sostiene il britannico Charles Hope, ex direttore del Warburg Institute), la rappresentazione del Salvator Mundi è la versione di un'icona tradizionale bizantina, un'arte statica, simbolica e profondamente austera, da non essere manipolata in questo senso. Allo stesso modo, l’opinione dello specialista leonardiano, Jacques Franck, secondo il quale il ritratto non può essere “leonardesco” solo perché non è leggermente “girato”, inciampa sulle sue stesse gambe. Adeguare il Cristo a una prospettiva diversa (come nella Gioconda) annullerebbe il più grande segno che connota il titolo del dipinto, Salvator Mundi: la sua sacralità protetta dalla sobrietà. Comunque, è anche possibile che l'amara esperienza del pittore in un analogo episodio di commissione gli sia servita da lezione per il linguaggio dell’immagine del Sacro (ritornerò sull'argomento più avanti).
Partendo dal presupposto che per tagliare il male bisogna prima guardare alla radice, ecco che la casa d'aste responsabile, Christie's, decide di “alzarsi in piedi” per legittima difesa: “Le ragioni dell'erudito consenso, insolitamente unanime, che il dipinto sia un’opera di Leonardo sono numerose, tra cui: il già citato confronto del dipinto con i due disegni preparatori autografati conservati nel Castello di Windsor; la corrispondenza con il Salvator Mundi nell’incisione di Wenceslaus Hollar del 1650; e la sua dichiarata superiorità rispetto alle più di venti versioni conosciute”.
Modestini: "I pentimenti, in genere, sono un indizio che il dipinto non è una copia..." (Foto: The Daily Item)
Di tutti gli aspetti che sono stati oggetto di tante domande, la più grande polemica girerebbe intorno al piccolo elemento, collegato al tema del dipinto: la sfera di cristallo, che, stranamente, non produce rifrazione della luce, un fenomeno ottico naturale che difficilmente sarebbe sfuggito all'acuta percezione di Leonardo e alla sua ossessiva minuziosità. Il biografo Walter Isaacson, ad esempio, sostiene che la non distorsione ottica è stata "una decisione consapevole da parte di Leonardo". Secondo lui, l'artista deve aver ritenuto che una rappresentazione più accurata avrebbe potuto rubare la scena e distrarre lo spettatore dal vero soggetto del dipinto (il Messia) oppure, sempre secondo Isaacson, che l’artista "cercava sottilmente di trasmettere un atto “miracoloso” da parte di Cristo alla sfera". Secondo me, né una cosa né l'altra... Ma, per comprendere meglio le considerazioni che farò in seguito, vorrei ricordare al lettore che la tecnica dello sfumato fu davvero rivoluzionaria alla fine del XV secolo e fu decisiva nella costituzione del Salvator Mundi.
Il miracolo dello sfumato
Nonostante abbia elevato la tecnica dello sfumato a un nuovo livello, unendolo alla pittura a olio, Leonardo da Vinci non ne è il creatore, come comunemente si ritiene. Con Leonardo, lo sfumato comprendeva una nuova tecnica, il glacis (una variante della “vetrificazione”), che consisteva nell'applicare uno strato di olio mescolato con una minima quantità di pigmenti colorati su una base bianca nel supporto pittorico. Da ciò si ricavava uno strato sottile che riproduceva una tonalità di colore eterea, evanescente. Con successive applicazioni di questi strati si otteneva un effetto di vibrante persistenza. Questa peculiare procedura sarebbe stata applicata solo nelle ultime opere dell'artista e, probabilmente, la Gioconda è stata la prima in cui fu utilizzata.
Lo scopo di questo artificio era ottenere effetti di volume in modo da creare sì un forte realismo, ma anche un'atmosfera soprannaturale. La composizione riceveva una nuova aura in un mondo abituato alle limitate immagini piatte delle rappresentazioni con effetto bidimensionale, tipiche del Medioevo, le quali, pur portando segni e codici propri, erano molto lontane da qualunque risultato realistico. Non è, dunque, difficile immaginare la reazione di coloro che, nella tecnica dello sfumato, hanno individuato la transizione a un nuovo capitolo della storia dell'immagine: così come oggi ci stupiscono, per l’assoluto e spaventoso realismo, la tecnica delle proiezioni 3-D e la tecnologia I-Max sullo schermo.
Inoltre, anche con l'uso della sezione aurea, la figura centrale nella composizione pittorica diventa parte del tutto, nel suo insieme. Vale a dire che l'immagine del già schematico modello iconografico della Gioconda, immaginato da Leonardo, nasce dal desiderio di questo "Uomo Universale", rinascimentale, che vede il proprio genere in modo integrato con la Natura... in cui entrambi gli elementi sono rappresentazioni di Dio.
San Giovanni Battista (1513-1516) di Leonardo: effetto dell’atmosfera eterea ottenuto dallo sfumato. (Foto: Pubblico dominio)
È noto che Leonardo difendeva il concetto che il Creatore si manifestava e riposava in tutto il Creato – tramite o al di là dei nostri sensi e di quanto siamo in grado di comprendere. E anche qui percepiamo il percorso aperto dalla mente dell'artista: siamo inseriti nella stessa Natura di cui siamo il frutto. Tuttavia, l'Uomo la modifica in quanto crea altri punti di vista che non si limitano alla prima impressione da essa fornita. In ciò risiede la pluridimensionalità del “reale”, qualcosa che la concezione medievale del potere agente - e spesso limitante - di Dio rendeva del tutto impossibile.
La sfera e la mano sinistra
Per rispondere ancora a Isaacson, per chiunque vissuto in un’epoca che cominciava ad assistere all’uso di queste nuove tecniche leonardesche, un effetto illusorio di rifrazione della luce in un dipinto – seppur molto interessante – avrebbe perso di brutto in termini di fascino visivo. Dopotutto, la Gioconda è quello che è senza la necessità di tenere una sfera in mano, giusto?
Sulla seconda speculazione (Gesù e il fenomeno della non rifrazione), a che cosa servirebbe un miracolo “alla rovescia”, cioè, riferito a un fenomeno che non ha bisogno di un miracolo per essere spiegato? Credere che la meraviglia di vedere Cristo che tiene in mano una sfera di cristallo risieda proprio nel cancellare quello che sarebbe il suo più grande fascino (l'effetto della distorsione), anche se avrebbe un certo senso, sarebbe così strano quanto accettare che la «mancanza di prove costituisce, da sola, una prova”... e ciò resta pur sempre un “ragionamento logico”. Ma tutto questo finisce per creare un vicolo cieco: un'idea ciclica che non si sviluppa e con la quale non si arriva da nessuna parte.
L'affermazione di Martin Kemp, nel giustificare la non rifrazione che ci si aspetterebbe, porta finalmente un fondamento alla discussione. Lui identifica persino il tipo di minerale di cui è fatto il nostro globo: la calcite, o cristallo di rocca, che chiarisce il comportamento ottico di ciò che si vede lì, nel dipinto, completamente coerente con ciò che accadrebbe nella pratica, inclusa la presenza di quelle che chiamava "sacche d’aria.”
Nel suo studio Die Entdeckung der Jupitermonde 105 Jahre vor Galileo Galilei, il professor Frank Keim (un ricercatore che tende ad avvicinare l'astronomia alla storia dell'arte) offre una teoria quantomeno curiosa per chiarire una delle peculiarità più sorprendenti di questa sfera che, secondo lui, in realtà è una mappa che ci mostra le due lune di Giove, Ganimede (rappresentata due volte) e Callisto nei tre punti bianchi più prominenti (la "Cintura di Orione" per Kemp). La posizione di Giove si trova esattamente all'incrocio delle stole di cuoio a "X" sul petto del Messia: la perla. L'interesse di Leonardo per l'astronomia fu particolarmente intenso negli anni della preparazione del dipinto, nel 1501, e il suo progetto compositivo comprenderebbe alcune preoccupazioni didattiche di fronte alle nuove scoperte scientifiche (ci sono pervenuti alcuni dei suoi appunti sulla costruzione di un telescopio). Pertanto, l'intenzione di lasciare la sfera “pulita” nel dipinto doveva essere tale che servisse solo da sfondo alla rappresentazione pittorica e schematica di questa verità acquisita dalle sue numerose osservazioni a Firenze. Il Salvator Mundi resta pur sempre un connubio armonioso tra Religione e Scienza: il sapere ideale, come difendeva Leonardo.
Che Leonardo non si limitasse al solo fenomeno delle distorsioni ottiche è palese in un altro suo capolavoro, La Vergine delle Rocce, conservato al Louvre. Sappiamo che l'esecuzione di questo dipinto avvenne tra il 1483 e il 1485 nel mezzo di un “calderone” di dibattiti nella Chiesa stessa, volti a un revisionismo sul Concilio di Efeso (dell'anno 431) e sul mistero della maternità divina di Maria (Theotokos). Commissionato dalla Confraternita dell'Immacolata Concezione di Milano, che sosteneva la tesi che la Vergine fosse, infatti, la Madre di Dio prima, durante e dopo il concepimento di Gesù, Leonardo decise di dare alla rappresentazione un corredo del tutto innovativo e controverso per quell’epoca. Al posto dei classici aloni di santità, delle ali esuberanti per l'angelo o delle nubi piene che collegano Cielo e Terra, quello che si vede è uno scenario affrancato dalle convenzioni umane, dalle leggi della fisica, dove il tempo e lo spazio non esistono più e dove tutti i personaggi sacri sembrano persone comuni. L'artista ci offre, in cambio, una nuova realtà, trascendentale, metafisica e sconosciuta... new age. Lì, tutto si livella all'istante e diventa soltanto... uno, l'"Unus". A proposito, anche nel Salvator Mundi c'è una “U” centrale sul bordo di cuoio della tunica di Cristo, in cima al petto, che potrebbe alludere a questo messaggio. E anche per i diversi tipi di vegetazione presenti nel paesaggio, è stato dimostrato che non possono coesistere nel nostro cosiddetto piano reale. Dunque, avrebbe perfettamente senso scartare sia le proprietà ottiche (come ci si aspetterebbe) sia la tradizionale croce verso l'alto (anch'essa assente) sulla sfera del Salvator perché ora il linguaggio non appartiene esclusivamente al mondo naturale e alle sue particolarità. E Leonardo ha pagato a caro prezzo per la sua Vergine delle Rocce. Respinto dalla confraternita (proprio per le sue innovazioni), si ritrovò, per forza di cose, a dover rifare il dipinto insieme a due collaboratori: Ambroggio ed Evangelista de Predis. Il risultato è quello che si può vedere oggi alla National Gallery di Londra.
La sfera cosmica: da autentico Uomo del Rinascimento, Leonardo ci offre la chiave per comprendere la concezione rinascimentale del mondo. (Foto: Pubblico dominio)
Finalmente una firma?
Esaminare dettagli nascosti in opere d’arte antiche, colpite dagli effetti del passare del tempo, è certamente un compito particolarmente arduo. In certi casi, praticamente impossibile a causa di naturali inconvenienti che impediscono di eseguire un esame diretto sul materiale originale. E questo è particolarmente più drammatico qui, nel Salvator Mundi. Tuttavia, con le migliori riproduzioni del dipinto dopo la pulizia e prima de restauro a cui l’opera è stata sottoposta, è possibile, grazie all’utilizzo di un avanzato software di edizione di immagini, rilevare delle linee che inducono fortemente al riconoscimento di qualcosa di molto particolare. In realtà, il punto che qui si vuole sottolineare sarebbe solo un possibile indizio piuttosto che tracce casuali. La possibilità di una coincidenza tra tratti e lettere esiste ed è forte, anche se, comunque, resta il fatto - come riferito – dell’interferenza a favore di un'errata interpretazione dovuta alla qualità non ottima di alcune delle foto disponibili.
Ciò premesso, il “Salvator” ci riserva una sorpresa: la presunta firma di Leonardo all’interno di uno degli occhi del Messia ivi rappresentato.
Il nome sull'occhio destro? Alcuni dei presunti frammenti dell’iscrizione "lionardo" sono visibili addirittura nella fase post-pulizia / pre-restauro del dipinto ancora danneggiato, come risulta dallo studio realizzato da Átila Soares. In alto a destra, una delle firme ben note di Da Vinci, "IO, lionardo". La peculiare “I” di questo “IO” può essere rilevabile nelle riproduzioni fotografiche preliminari del dipinto. Ulteriori analisi potrebbero confermare queste evidenze. (Foto: Wikimedia - 2017 / Soares – 2020).
Dentro l'occhio
L’elemento, trovato dalle analisi di alcune riproduzioni ad alta risoluzione del dipinto, deriva dai segni nel suo occhio destro (punto di vista del Cristo), forse a indicare l'iscrizione: "lionardo". Riscontrata lungo la curvatura, appena sotto l'iride, è simile ad alcune firme dell'artista toscano. Come in altri casi simili a questo, le linee non sono facili da identificare, ma una somma grafica sequenziale di evidenze sembra indicare qualche "intenzione" dietro a ciò che potrebbero sembrare solo dei segni casuali. Curioso che l'evento rimanda, inevitabilmente, al ritrovamento delle iniziali “L” e “S” negli occhi della Gioconda da parte del dott. Silvano Vinceti nel 2010 (e, in base a tale scoperta, ho fatto una ricerca che svela come le stesse iniziali si troverebbero anche sul Salvator Mundi, nonché in altre opere di Leonardo).
Quanto a eventuali supposizioni che il restauro della Dott.ssa Modestini possa aver involontariamente "prodotto" queste linee, va considerato che più della metà della zona in cui si trova tale "iscrizione" non ha subito danni in misura maggiore – come evidenziato dagli infrarossi. Questa parte è stata, diciamo, ripulita dalle antiche pennellate. Modestini, infatti, assicura che è intervenuta il meno possibile in tale zona. Inoltre, come afferma lei stessa, il risultato complessivo del restauro dell'occhio destro è stato ragionevolmente soddisfacente, per cui si può considerare alta la probabilità che la parte in cui si trovano questi segni possa aver conservato la base della struttura grafica su cui si è svolto il restauro. Valida, a proposito, la valutazione di Martin Kemp, il quale, stupito nel vedere direttamente i risultati, ha dichiarato che sopra l'occhio destro aveva notato la manipolazione del colore da parte di Da Vinci con l’uso del palmo della mano (tipico di Leonardo). In altre parole, tale dichiarazione potrebbe essere intesa come un certificato di buona fedeltà tra ciò che possiamo vedere oggi in questa frazione del dipinto e quello che dovrebbe essere stato 500 anni fa.
Con tale scoperta – pubblicata sulla rivista "Humanitas" (Ed. Escala, San Paolo) ad aprile del 2022 – dimostro che questi segni sono un dato di fatto. Motivo per cui qualsiasi contributo accademico per un ulteriore approfondimento a riguardo sarebbe interessante. Gli studi proseguono.
Conclusione
Perpetuando la tendenza di considerare tutto ciò che riguarda Leonardo fonte di ispirazione e oggetto di enigmi e incertezze (in modo giusto o ingiusto), il caso Salvator Mundi rientra, dunque, nella norma, a maggior ragione quando sono coinvolti gli astronomici 450,3 milioni di dollari, attirando l’interesse degli investitori nel seducente mondo dell’arte. La differenza è che qui il “troppo bello per essere vero”, in realtà, lo è. Sono indagini scientifiche e serie testimonianze a confermare la risposta che appare evidente, anche agli occhi di esperti intenditori. Ancora oggetto di grande polemica, il dipinto sembra consolidarsi nel breve elenco della produzione vinciana, aggiungendovi un peculiare insieme di attributi mistici e figurativi. Ne è prova, infatti, l'immagine di questo Gesù adulto messo in risalto tra la sua celebre sfilata di ritratti femminili. Detentore del prezzo record e spartiacque nel feroce capitalismo del mercato dell'arte, forse l'ironia più grande del Salvator è la dimensione del pandemonio che ha scatenato (oltre alla vicenda delle attribuzioni) in contrapposizione con la serenità e l'armonia con cui Cristo, proprio lì, ci benedice e ci vuole inspirare. Se “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, allora la massima può servire anche all'acquirente di un mitico Leonardo che, anche se ricchissimo, difficilmente vedrà la gloria del riconoscimento del suo acquisto.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Filho, Átila Soares da Costa. A Jovem Mona Lisa. Rio de Janeiro: Multifoco, 2013.
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Keim, Frank. Salvator Mundi: die Entdeckung der Jupitermonde durch Leonardo, Dürer und Giorgione. Disponibile cliccando qui. Visitato il 20 ottobre 2018.
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Vasari, Giorgio. Vidas de pintores, escultores y arquitectos ilustres. Buenos Aires: El Ateneo, 1945.
Venturi, Lionello. História da crítica da arte. Lisboa: Edições 70, s/d.
Átila Soares da Costa Filho è brasiliano, insegnante, ricercatore, scrittore, esperto e valutatore di opere d’arte. Ha una laurea in Disegno Industriale conseguita presso la Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro e diversi titoli di specializzazione post laurea in Storia, Filosofia, Chiesa Medievale, Storia dell'Arte, Antropologia, Sociologia, Archeologia e Beni Culturali. È, inoltre, collaboratore nella rivista “Humanitas” (Ed.Escala, São Paulo) e nei siti web Italia Medievale (Milano) e Nova Acrópole (Lisbona). Fa parte del comitato scientifico della Mona Lisa Foundation (Zurigo) e del progetto “L’Invisibile nell’Arte” (Roma). È autore di quattro libri: "La Giovane Gioconda e altre domande intriganti sulla Storia dell’Arte" (2013); "Leonardo da Vinci's Earlier Mona Lisa” (co-autore, 2016), a cura dello storico dell’arte, Stanley Feldman; "Leonardo e la Sindone e altre domande curiose sull’Arte e la Storia" (2016); e “Leonardo Da Vinci Mona Lisa: New Perspectives" (co-autore, 2019), a cura del Prof. Jean-Pierre Isbouts.
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